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Somalia 2009: ricordo di Verena

di Marco Beatini

Somalia 2009: ricordo di Verena

Siamo stati a Merka, in Somalia, all’inizio di dicembre del “98” come cooperanti su di un progetto sanitario di emergenza affidato ad una Ong italiana, il COSV. Questa Ong era presente in Somalia già da alcuni anni con progetti che abbracciavano numerosi ambiti, sociale, educativo, agricolo etc.
Il nostro compito consisteva nel supportare il personale locale nella difficile gestione dell’ospedale della cittadina, nella supervisione di alcuni centri sanitari periferici e soprattutto nel fronteggiare una epidemia di colera.
Io e Giuliana, mia moglie, stavamo attraversando quel periodo critico di integrazione con la realtà locale che caratterizza solitamente le fasi iniziali dei progetti di cooperazione.
Per la verità non era quella la prima volta che operavamo in Africa nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Poco più di 5 anni prima, subito dopo la firma degli accordi di pace, avevamo partecipato ad un progetto di sviluppo in Mozambico.

L’anno trascorso lì si era rivelato essere una esperienza entusiasmante sia dal punto di vista professionale che culturale e umano.
Tornati in Italia avevamo ripreso il lavoro quotidiano (io come medico ospedaliero e lei come infermiera). Ma quell’anno passato in Mozambico aveva lasciato su di noi un segno profondo. E così ci siamo ritrovati, all’inizio di dicembre del “98” su un beech-kraft da 8 posti in volo dall’aeroporto Kenyatta di Nairobi all’aeroporto “El Ahmed” di Merka. 
L’impatto è traumatizzante. Siamo stanchi, terribilmente accaldati (siamo partiti da casa nostra con la neve), disorientati dalla quantità incredibile di persone armate con gli arsenali più svariati, a piedi o a bordo delle “tecniche” (fuoristrada furgonati adattati al trasporto di armi pesanti). Usciti dalla zona franca dell’aeroporto facciamo conoscenza con la nostra scorta armata personale che non ci abbandonerà più fino al giorno della partenza.

Il giorno dopo il nostro arrivo, quando il sentimento che la fa da padrone nel nostro stato d’animo è lo sgomento, ci viene presentata Verena. E’ alloggiata anche lei, come noi, nel “compound” del Cosv. 
Verena Karrer, è una ostetrica svizzera di lingua tedesca che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita alle donne e ai bambini somali. Fondatrice della Ong Swisso (Switzerland-Somalia) da lei fortemente voluta e cercata per dare un volto e un nome alla scuola (la sola scuola secondaria in tutta la città!) e agli ambulatori di diagnosi e cura che tanto hanno aiutato le donne e i bambini della città di Merka. La sua passione e il suo entusiasmo sono stati per noi un toccasana e ci hanno aiutato a capire un po’ meglio la complessa realtà somala. Lavorava “sodo”, per permettere ai bambini di avere una istruzione di base e per fare in modo che fosse rispettato il loro diritto alla salute e ad una nutrizione adeguata. Così come voleva fortemente che le madri fossero consapevoli il più possibile dell’importanza di partorire in sicurezza, e per questo non si risparmiava di uscire anche con il coprifuoco o di eludere la scorta se qualcuno la chiamava perché aveva bisogno di lei. Qualche volta l’abbiamo accompagnata durante il suo lavoro negli ambulatori o nelle capanne dove le sue pazienti sopportavano con dignità lunghi e faticosi travagli.

Un pomeriggio ci ha chiesto di seguirla nel quartiere soprastante la città, sulle dune di Merka, dove una donna che stava per partorire l’aveva mandata a chiamare per assisterla. Decise di andare immediatamente anche se la scorta armata non era al momento disponibile; diceva che la gente che la vedeva camminare liberamente per strada conosceva il vero motivo di quel suo vagare tra edifici distrutti, spazzatura e asini che trainavano carretti con bidoni di acqua “potabile” di pozzo. Arrivati sul posto entrammo in un cortile in terra battuta e dopo pochi passi varcammo la soglia della capanna dove immediatamente sul fondo, poco distante dal focolare, giaceva su di una stuoia in preda alle doglie Fatuma. Verena aveva portato con se tutto l’occorrente per garantire la sterilità necessaria per preservare donna e bambino dalle infezioni e per aiutare l’espulsione del feto resa difficoltosa dalla infibulazione completa che in Somalia costituisce la maggioranza dei casi. Verena aveva allora 67 anni, ma in quel momento, dimentica degli acciacchi dell’età, si inginocchiò a terra e prestò la sua esperienza e professionalità con la scioltezza di una ventenne. Tutto andò bene, nacque un bel maschietto che venne prontamente chiamato Marco in onore della nostra presenza e del piccolo aiuto che portammo. Al termine delle incombenze professionali Verena si prodigò nel suo misto di tedesco, inglese, italiano e somalo per spiegare a Fatuma i rischi che aveva corso a causa della sua mutilazione e la necessità di non correrli di nuovo per le prossime gravidanze. Cercò quindi di dissuaderla dal farsi sottoporre ad una “reinfibulazione”. Questo poteva comportare andare contro l’influenza della comunità e quindi una probabile marginalizzazione. Inoltre correva il rischio di non essere più accettata dal marito. Per Verena la salute della madre e del bambino era superiore a qualsiasi implicazione morale o culturale. Queste contraddizioni facevano parte del suo operato.

Verena non si è mai risparmiata e le donne e i bambini di Merka l’amavano profondamente. E proprio questo suo animo “combattente” le ha permesso di addentrarsi, in un modo tutto suo particolare ma estremamente umano, nel delicatissimo problema delle mutilazioni genitali femminili, che in Somalia deturpa, crea orribili complicanze e spesso uccide le donne. Lei cercava di infondere in queste donne il coraggio per cercare di cambiare partendo dal loro vissuto personale.
Rischiava, Verena, lo sapevamo tutti e lo sapeva anche lei. In una logica di guerra, di fame, di povertà, di mancanza di rispetto per la vita, lei parlava di dignità delle donne e dei bambini. Pensava che ci sarebbe stato un futuro anche per il martoriato popolo somalo ed era sicura che sarebbe iniziato proprio dalle donne e dalle future generazioni; per questo investiva su di loro risorse fisiche ed economiche spendendosi fino all’ultimo. Quando parlavamo di questi problemi spesso non accettava, o lo faceva malvolentieri, le regole imposte dalla situazione contingente di insicurezza. Lottando contro i mille problemi che l’attendevano ogni giorno voleva dimostrare che è possibile uscire dalla rassegnazione che inevitabilmente colpisce chi da anni continua a subire violenze e ingiustizie. La gente che resta fuori dai giochi di potere clanici, dalle logiche dei signori della guerra, dagli estremismi religiosi, rappresentava per lei il vero significato del suo impegno in Somalia.

Ed è stato per noi, che abbiamo condiviso con lei un periodo della nostra vita, un’indimenticabile esperienza. 
Naturalmente siamo rimasti molto legati. E tutte le volte che rientravamo in Italia dalle nostre avventure africane ci sentivamo telefonicamente ripromettendoci di vederci, fino a quando abbiamo appreso casualmente da una notizia di agenzia (MISNA) che era stata trovata morta nella casa dove era andata ad abitare a Merka, uccisa con 14 colpi di arma da fuoco per ragioni che non sono mai state chiarite dagli investigatori. Continuava, la notizia di agenzia, dicendo che il sabato dopo il suo ritrovamento si era svolta a Merka una grande manifestazione, nel corso della quale tantissime donne con i loro figli avevano marciato per le strade della città protestando contro il suo omicidio.

Marco e Giuliana