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Togo Hospital

di Luigi De Salvo

TOGO HOSPITAL

Dopo un viaggio infernale da Parigi a Lomé, iniziato con dieci ore di ritardo, siamo arrivati in Togo!

Sia io che Vittorio (urologo), Ida (ginecologa), e Antonio (specializzando in chirurgia) siamo abbastanza cotti di stanchezza. Per fortuna  le Suore Canossiane della capitale ci sono venute a prendere all’aereoporto e ci hanno ospitato per la notte nel loro convento alla periferia della città. Il giorno seguente siamo partiti alla volta di Datcha, nella diocesi di Atakpamè, distante una mezza giornata di macchina dalla capitale.

L’unica strada asfaltata del Togo, che si spinge fino in Burkina, si snoda fra colline verdeggianti e boschetti di teck, attraversando qualche piccola cittadina. Dalla strada asfaltata si staccano delle piste sterrate che portano ai villaggi sperduti nella savana. Una di queste  ci conduce all’ospedale di Datcha.

Qui giunti veniamo festosamente accolti dal personale e dalle suore che conoscevamo già dal viaggio precedente: ho rivisto con affetto suor Gina,  suor Annamaria, e le altre consorelle.

L’ospedale S. Joseph di Datcha è fatto, come molti altri ospedali africani, di piccoli padiglioni muniti di veranda  e collegati fra di loro da pensiline.  Queste, utili per fare passare le persone all’ombra, sono assolutamente indispensabili nel periodo delle piogge, che qui sono particolarmente violente e frequenti.

I padiglioni sono puliti e decorosi, ma l’ospedale , come nel resto dell’africa, non fornisce ai pazienti né i pasti né le lenzuola: pertanto le camere sono coloratissime dai panni che ciascuno si porta da casa. Inoltre per ogni paziente vi sono alcune persone della famiglia che gli preparano da mangiare o pagano la magra retta ospedaliera facendo lavori di manutenzione. Grazie a questo fatto l’ospedale è pieno di gente  multicolore e ha dei giardini curatissimi, nonostante il clima infernale, più adatto alla selva ed agli insetti che all’uomo.

Davanti al padiglione della chirurgia ci sono galline che razzolano sotto un albero frequentatissimo da uccelli tessitori e da altre specie molto rumorose e da enormi pipistrelli che di  giorno dormono. Di notte, al contrario, tacciono gli uccelli ma sono attivi i pipistrelli che con rospi e iguane tengono sotto controllo la notevole popolazione locale di insetti.

Il padiglione operatorio è l’unico munito di aria condizionata, che spesso non funziona, e di generatore elettrico che garantisce la luce durante le frequenti  interruzioni nell’erogazione. La sala operatoria è funzionale, anche se non particolarmente moderna o lussuosa, essendo stata realizzata con materiale di recupero, dismesso dagli ospedali italiani. Purtroppo il problema è l’approvvigionamento dei materiali d’uso, come guanti, fili di sutura, protesi, ecc. che impegnano le magre risorse dell’ospedale e non sempre sono reperibili.

Anche le trasfusioni sono problematiche,  perché molte persone, potenziali donatori, hanno patologie infettive  virali e moltissimi sono anemici a causa della malaria.

Comunque , nonostante le difficoltà, inizia immediatamente l’attività chirurgica che ci porterà  a fare nel mese successivo numerosi interventi di chirurgia generale di vario tipo e di patologia ginecologica,oltre a molti parti cesarei. Credo che per un medico occidentale sia uno shock imparare a gestire la patologia Africana per la mancanza di specializzazione e per la carenza di mezzi diagnostici, a cui siamo ormai  assuefatti nei paesi occidentali.

Lì, per  fare diagnosi, occorre spolverare le dimenticate tecniche manuali della vecchia semeiotica del primo novecento e bisogna ripassare, prima di partire, tecniche chirurgiche di varie specialità: chirurgia, urologia, ostetricia, ginecologia, ortopedia….  Altrimenti, come abbiamo fatto noi,  bisogna viaggiare in equipe, per aiutarsi a vicenda.

Per fortuna in ospedale c’è anche suor Stella Matutina, Togolese  laureata al s. Raffaele di Milano, che è un abile chirurgo e che parla un perfetto italiano! Tutti assieme formiamo in breve una bella equipe affiatata.

Molti pazienti arrivavano in ospedale a piedi o spinti su una bicicletta o su un carretto dai parenti, dopo essere stati visti dai guaritori locali. Spesso erano passati molti giorni dall’inizio della malattia, ma la loro forte fibra, risultato di una durissima selezione naturale, unita ad una notevole resistenza al dolore  permetteva loro di superare disavventure sanitaria anche molto serie.

Le giornate sono volate fra sedute operatorie, visite ambulatoriali, ma non sono mancati momenti di relax: la routine fatta di pasti leggeri e letture alternate ad accese partite a carte( non si può descrivere la fortuna a cirulla di Antonio e Vittorio!) La mancanza di televisione o di altri passatempi tecnologici invitavano a parlare, a sentire musica o a cercare distrazioni come le partite di calcio all’alba della domenica ( con il nostro specializzando nella parte dell’oriundo segna gol!)

Approfittando di una festa nazionale che ci forniva un “ponte”  organizzammo una spedizione nel nord del paese , lungo la strada infernale per il Burkina,  attraverso la famigerata collina spezza motori!

Questa è una collina con una strada ripidissima tagliata dai tedeschi all’inizio del secolo. Oggi è percorsa nei due sensi da interminabili file di autocarri che, in salita bruciano le frizioni, ed in discesa bruciano i freni.

Il risultato è che spesso i camion si fermano per guasti e talvolta qualcuno cade nel burrone (non ci sono ripari né guard-rail) Sciami di meccanici in moto percorrono la collina ed eseguono sul posto le riparazioni. Il traffico si paralizza, ma è talmente lento che quasi non ci se ne accorge.

A nord di Kara siamo andati a vedere la popolazione Tambermà, che costruisce case di terracotta molto particolari, dichiarate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO: questa è una popolazione ancora molto primitiva, che tuttavia si è dotata di abitazioni a due piani dall’architettura singolare. Dall’esterno assomigliano a piccoli castelli con i granai che simulano torri coperte. Dentro si sviluppano a chiocciola, con il focolare e gli animali in basso e l’abitazione ed i granai in alto. L’insieme offre ottime possibilità di difesa contro gli intrusi! Le case-fortezza sono riunite in agglomerati parentali.  L’insieme fa pensare ad un paesaggio medioevale, ma non hanno nulla in comune con le costruzioni del nostro medio evo: sono il frutto di un adattamento alle condizioni climatiche locali ed ai materiali disponibili.

Nella zona attigua vivono altre popolazioni  primitive dove abbiamo visto lavorare il ferro con fucine rudimentali, adoperando al posto di incudine e martello, due massi di granito! L’abilità del fabbro era tale che riusciva a costruire degli utensili belli , pur con mezzi così limitati…

Tuttavia la maggior parte del tempo l’abbiamo trascorsa in ospedale, lavorando: abbiamo operato molto, perfino una principessa locale diciannovenne, scortata dalla nutrice!

Il tempo ci è sfuggito dalle dita come sabbia e troppo presto siamo dovuti tornare a Lomè e da qui, passando per la Costa d’Avorio per visitare una missione ed un ospedale  a Gran Bassam, siamo rientrati in Europa lasciandoci dietro molta nostalgia.