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Missione in Zambia Aprile 2012

di Luigi De Salvo

Dopo un viaggio interminabile in aereo siamo arrivati a Lusaka. All’apertura del portello non ci assale il solito muro di calore africano. Anzi. Sembra di essere in montagna a settembre: aria freschina che accappona la pelle. Anche il cielo è grigio.

Solita rissa per superare il controllo passaporti e ritiro bagagli: incredibile, ci sono tutti!

Una suorina vestita col grigio saio delle Francescane ci aspetta all’uscita: sister Theresa ,I presume? E’ lei! e ci scorta fino ad un pulmino con Clement , l’autista.

Lusaka si presenta come una città moderna, con strade ben tenute e abbastanza pulite, con palazzi moderni e anche centri commerciali all’europea, forniti di tutto quanto un occidentale può volere. La luce elettrica è diffusa ovunque: insomma lo Zambia ha un aspetto molto” british” e poco africano.

Sister Theresa ci accompagna a prendere schede telefoniche e Vittorio viene borseggiato in tempo reale del suo IPhone: meglio che a Napoli e un po’ meno british!! Sr Theresa rimane mortificata, come se fosse colpa sua!

Le suore ci accolgono con calore in un loro centro studi ed il giorno dopo andiamo al nord, verso Luanshya. L’aspetto del territorio conferma la prima impressione: strade ben tenute, coltivazioni, casupole con luce elettrica: sembra la padania di qualche anno fa! Solo che qui i padani sono neri. Anche il clima continua ad essere più simile a quello italiano che a quello cui siamo abituati in Africa, ma siamo su un altipiano e nel loro autunno.

Finalmente arriviamo ad Ibenga, dove si trova la missione ed il St. Theresa Hospital: ci accoglie una chiesa in stile gotico toscano dai colori pastello caramella, ed un ospedale a bassi padiglioni con veranda, tipico di queste zone      

L’ospedale è organizzato all’inglese, con infermiere in divisa ben curata, due colleghi eleganti e meeting organizzativi al mattino. Tuttavia…

Facendo il giro dei pazienti, mi accorgo che sia i clinical officers che i Colleghi medici, lavorano a schemi ed etichette: tosse?=TBC, dispnea?= insufficienza cardiaca ecc. logico aspettarselo dai primi, meno accettabile dai secondi… Anche le terapie sono standardizzate, ma nessuno controlla la esattezza della diagnosi! Cerchiamo di adeguarci ai loro standard, confutando però alcune diagnosi molto superficiali.

L’atmosfera si ispessisce un po’: non c’è molto fair play da parte dei colleghi… Inoltre mi accorgo che dietro la facciata di efficienza inglese c’è ben poco: mancano alcuni strumenti fondamentali, come ECG, RX, molto laboratorio.

Inaspettatamente, visto che il Paese si presenta moderno, c’è anche molta malnutrizione, che è particolarmente evidente nei bambini. Questo influisce pesantemente sul decorso delle malattie comuni, quali malaria, patologie respiratorie e infettive. Lo staff non sembra stupirsene molto. 

Anche la gestione delle emergenze è inefficiente e cominciano a vedersi alcuni risultati negativi. Purtroppo perdiamo un discreto numero di bambini a causa di malattie curabili, ma aggravate dalla malnutrizione e dal ritardo con cui arrivano in ospedale.

Cerchiamo di discuterne ad un meeting, ma la difesa d’ufficio blocca la discussione. Fortunatamente iniziamo ad operare e, facendo interventi che non erano eseguiti usualmente e visti i buoni risultati, riusciamo a farci apprezzare da tutti.

Pian piano riusciamo a fare entrare un po’ di spirito critico nei colleghi e li facciamo avvicinare all’ecografia e al controllo dei dati di laboratorio. Ida fa una presentazione sull’HPV (papilloma virus) e su cancro della cervice che convince tutto il personale. Ci chiedono di continuare a collaborare con loro e di tornare ad operare. Noi cercheremo di tornare, ma soprattutto proveremo ad inviare alcuni degli strumenti mancanti e ad organizzare dei corsi per insegnare come usarli.

Parallelamente al attività clinica discutiamo a vari livelli gerarchici con suore francescane di un nostro progetto per ridurre la mortalità materno infantile e la malnutrizione. Loro si stanno battendo da anni contro queste piaghe ed hanno organizzato centri nutrizionali autonomi oppure collaborano a quelli governativi. Suor Ilaria, ottantenne italiana veterocolonialista (quando è arrivata qui lo stato si chiamava Rhodesia del nord e c’era un governatore inglese!) ha messo su una scuola per handicappati e lo Yola-Yoli project con coltivazioni di mais, arachidi e girasoli, allevamenti di mucche ,maiali e polli con cui producono alimenti altamente energetici per integrare la dieta dei malnutriti. (>3000 pasti/mese)

Tuttavia vediamo anche centri, come quello di suor Letizia, in cui la dispensa è desolatamente vuota, fatta eccezione per due sacchi di mais e un pugno di pesciolini secchi. Servono urgentemente miracoli moltiplicativi oppure finanziamenti !!! Optiamo per i secondi e diamo un po’ di ossigeno a suor Letizia, che da sola, lontano da tutti, si occupa anche del lebbrosario. I pazienti ricoverati, con gli esiti della malattia ormai curata, ci salutano con deferenza, toccando il cappello con i moncherini…mi viene un groppo in gola.

Andiamo al nord, vicino al confine col Congo, a incontrare sr Beatrice, che ci mostra il centro di salute dove lavora: bello, pulito, organizzato. Fanno circa cento parti al mese, senza medico! Ci fa vedere le miniere e gli slums dove vive gran parte della gente e dei minatori. Durante il colonialismo questi avevano in comodato le case e molti benefit. Con la nazionalizzazione hanno sfrattato i minatori, venduto le case e mandato in rovina le miniere. Adesso hanno ceduto gli impianti a cinesi e paesi emergenti, che sfruttano senza pietà sottosuolo, popolazione e ambiente, avvelenando fiumi ed aria.

Insomma la situazione non è come appare a prima vista : le strade asfaltate e l’elettricità servono essenzialmente alle miniere, ed alle coltivazioni estensive di tipo industriale. La popolazione, a parte un embrione di classe media, vive come nel resto dell’Africa, nell’indigenza e nell’ignoranza. Chissà come riusciranno ad uscire da questa situazione? Forse con l’istruzione: non a caso su un muro c’era scritto: “Education is the only trip out of poverty”

Ci siamo sentiti un po’ inutili, con il nostro breve e piccolo aiuto sanitario…

Alla fine del soggiorno ci concediamo una gita per vedere le cascate Vittoria. Dopo i saluti di rito, partiamo per Livingstone, passando per Lusaka a prendere con noi suor Ornella, una italiana di Livorno, che lavora come pediatra all’ospedale generale da quasi due anni e che non aveva ancora visto le cascate…

Queste superano ogni immaginazione! Una nube di acqua vaporizzata sale a due-trecento metri di altezza ed avvolge ogni cosa provocando incredibili arcobaleni! Un sottofondo di tuono accompagna il timoroso visitatore. Anche la vegetazione attorno alla cascata è differente dal resto del paese: ha le caratteristiche della foresta pluviale tropicale che ti incombe e ti mette in soggezione. Con questo saluto indimenticabile e con l’immagine del coccodrillo che scodinzola nello Zambesi , lo Zambia ci invita a tornare…