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L’Africa raccontata alle zie

di Luigi De Salvo

L’africa raccontata alle zie

Mentre lo scirocco flagellava di pioggia i tetti della città vecchia, io ero in casa delle zie , in circonvallazione a monte, ed avevo una sensazione di irrealtà completa.

Ero venuto in questa bella casa della borghesia genovese, con i suoi mobili scuri, i ninnoli, gli argenti, a parlare dei diseredati che vivono in capanne o castelli di fango.

Non che le zie ottuagenarie o il cugino ignorassero la realtà africana: avevano vissuto per lunghi periodi in alcuni paesi di questo continente con l’altro cugino, che della cooperazione aveva fatto la sua vita e che dall’Africa non sarebbe più tornato.

Però avevano piacere a vedermi, erano curiose del mondo e volevano essere aggiornate sull’Africa e sui miei viaggi di volontario. Tutto questo, associato all’affetto che ho per loro rendeva le loro serate molto piacevoli. In più sono ottime cuoche e hanno l’abitudine ad apparecchiare la tavola con cura, come ormai non si usa quasi più, dispiegando i vecchi lini e disponendo per ogni commensale i quattro bicchieri e nove posate affiancate da un fiore. Tutto questo in mio (e loro) onore.

E io, in onore al cugino perduto, e per godere della loro compagnia ero qui con i miei racconti.

-Che pelandrone! E’ un bel po’ che non ti fai vedere! Quante missioni hai fatto nel frattempo?-

-beh, sono andato in Togo ed in Zambia..-

– Dimmi, ma l’Africa è ancora così? Arretratezza e poche speranze?-

-Beh, no, non tutta. Intanto non è tutta uguale, e poi sta cambiando rapidamente. Negli ultimi anni mi sto accorgendo che le cose mutano, che loro non sono sempre gli stessi: a fianco alla gran parte di popolazione povera, spesso al limite della sopravvivenza, compare una classe media, rampante.

Vedi , ad esempio,in Togo di due anni fa….Grazie!-

Il cugino mi porge il suo famoso, rinomato Martini…

– De nada. Dicevi?-

– beh…La spedizione in Togo ci ha condotti da Genova a Parigi e da qui a Lomè, in compagnia di africani elegantissimi, vestiti alla moda parigina, accessoriati di giornali francesi, che ci facevano dubitare della necessità di andare a fare volontariato nel loro Paese

Tuttavia l’ultima parte del volo ha mostrato un paese virtuale,  completamente buio!

Non appena si è aperto il portellone, un muro di aria calda e umida ti colpisce dritto nello stomaco e non riesci più a respirare. Poi passa…ma resti avvolto da una atmosfera umida e  buia, che ti mette ansia…

Dopo esser scesi ed aver recuperata una parte del bagaglio, siamo stati accolti ed ospitati dalle suore Canossiane della capitale.

Lomè (e tutto il resto del Togo!) , a parte un quartiere cintato e sorvegliato dove vivono i pochi neri ricchi e i bianchi, era tutta sprofondata nel buio più profondo, a tratti a mala pena interrotto da qualche tremolante fiammella!

Il giorno seguente siamo partiti alla volta di Datcha, nella diocesi di Atakpamè, distante una mezza giornata di viaggio dalla capitale.

L’unica strada asfaltata del Togo, che si spinge fino in Burkina, si snoda fra colline verdeggianti e boschetti di teck, attraversando qualche piccola cittadina dove la gente sembra molto povera . Dalla strada asfaltata una pista sterrata ci conduce all’ospedale di Datcha.

-Ricordo che anche in Benin la situazione era sovrapponibile. Negli anni non è cambiato molto, mi sembra-

– Beh, non molto, infatti i pochi benestanti danno solamente una illusione di benessere.

Arrivati all’ospedale di Datcha siamo stati festosamente accolti dalle suore Canossiane, che conoscevamo dal viaggio precedente: suor Gina,  suor Annamaria,suor Vittorina , suor Ellis e le altre consorelle.

L’ospedale S. Joseph di Datcha è fatto, come molti altri ospedali africani, di piccoli padiglioni muniti di veranda  e collegati fra di loro da pensiline.  Queste, utili per fare passare le persone all’ombra, sono assolutamente indispensabili nel periodo delle piogge, che qui sono particolarmente violente e frequenti.

I padiglioni sono puliti e decorosi, ma l’ospedale , come nel resto dell’Africa, non fornisce ai pazienti né i pasti né le lenzuola: pertanto le camere sono coloratissime dai panni che ciascuno si porta da casa. Inoltre per ogni paziente vi sono alcune persone della famiglia o tribù che gli preparano da mangiare o pagano la magra retta ospedaliera facendo lavori di manutenzione. Grazie a questo fatto l’ospedale ha dei giardini curatissimi e ordinati ed è ben pulito, nonostante il clima infernale, più adatto alla selva ed agli insetti che all’uomo.

Gli alberi che ombreggiano i padiglioni sono frequentatissimi da uccelli tessitori e di altre specie molto rumorose e da enormi pipistrelli che di  giorno dormono. Di notte, al contrario, tacciono gli uccelli ma sono attivi i pipistrelli che con rospi e iguane tengono sotto controllo la popolazione di insetti.

le zie:- Dì, ma c’erano anche altri animali? Brutte bestie?-

-si, ma quelli grossi non ci sono più, se li saranno mangiati tutti, e quelli che non ho citato sono serpenti e scorpioni ed altre amenità…-

– Già. Ci sono anche quelli. Avete lavorato tanto? Prendi ancora della torta di carciofi.-

– No grazie. E’ fantastica, ma se ne mangio ancora non potrò più fare onore alla vostra cucina!-

– Poi arriva il resto. Ma racconta…-

– Quanto al lavoro non ci possiamo lamentare: in ozio non siamo rimasti mai!

Il padiglione operatorio è l’unico munito di aria condizionata, che spesso non funziona, perché durante le frequenti  interruzioni nell’erogazione della corrente il generatore elettrico garantisce solamente la luce sul campo operatorio.

La sala operatoria è funzionale, anche se non particolarmente moderna o lussuosa, essendo stata realizzata con materiale di recupero, dismesso dagli ospedali italiani. Purtroppo il problema è l’approvvigionamento dei materiali d’uso, come guanti, fili di sutura, protesi, ecc. che impegnano le risorse dell’ospedale e non sempre sono reperibili.

Anche le trasfusioni sono problematiche,  perché molte persone, potenziali donatori, hanno patologie infettive  virali e moltissimi sono anemici a causa della malaria.-

–  Allora non sarete riusciti a fare molto…-

–  No,al contrario! Comunque , nonostante le difficoltà, in un mese siamo riusciti a fare numerosi interventi di chirurgia generale e ginecologica e alcuni parti cesarei.

Abbiamo anche operato una giovane principessa!

-…ma il Togo è una repubblica! Almeno di nome…-

– Si ma, a parte che la presidenza della repubblica in pratica è ereditaria, ci sono ancora i re tribali.

Questo, un bell’uomo vestito da inglese ed educato all’europea, ci ha portato la figlia di diciannove anni scortata dalla nutrice, in quanto affette da una brutta ipertensione. Pensa come erano progrediti: aveva fatto fare alla figlia persino una TAC nella capitale! Anche se avevano solo una lastra con quattro strati in totale, si dimostrava la presenza di un tumore surrenalico responsabile dei guai della ragazza.

Dopo esserci accertati che fossero disponibili i ferri chirurgici adatti abbiamo fatto questo delicato intervento nel cuore dell’Africa! Abbiamo sudato sette camicie non per l’intervento, ma per convincere la nutrice, che non abbandonava mai la principessa, a restare fuori dalla sala operatoria!

Per fortuna tutto è andato bene e dopo sette giorni sono tornate alla reggia.

-…quindi lavoravate come in Italia…-

– beh, no. Si lavorava abbastanza bene, ma non come qui. Certo, devi adattarti..

Credo che un medico occidentale sia parzialmente impreparato a gestire la patologia Africana per la mancanza di specializzazione nelle cure e per la carenza di mezzi diagnostici cui siamo ormai abituati e dipendenti.

Lì, per  fare diagnosi, occorre spolverare le dimenticate tecniche manuali della vecchia semeiotica del primo novecento e bisogna ripassare, prima di partire, tecniche chirurgiche di varie specialità: ostetricia, ginecologia, ortopedia….  

Altrimenti bisogna viaggiare in equipe, come facciamo noi,  per completarsi a vicenda.

L’emergenza non esiste: molti pazienti arrivavano in ospedale a piedi o spinti su una bicicletta o su un carretto dai parenti, dopo essere stati visti dai guaritori locali. Spesso erano passati molti giorni dall’inizio della malattia, ma essendo temprati da una durissima selezione naturale, ed avendo una notevole resistenza al dolore ,frequentemente riuscivano a superare patologie anche  molto serie.

-…insomma avete lavorato come negri!!..eheh…-

– non lo nego. Però

non sono mancati momenti di relax!  come le partite di calcio all’alba della domenica : il personale dell’ospedale contro il paese vicino, con il nostro specializzando nella parte dell’oriundo segna gol!!

Oppure la spedizione nel nord del paese , lungo la strada infernale per il Burkina, che  attraversa la famigerata collina spezza motori!

Questa è una collina con una strada ripidissima tagliata dai tedeschi all’inizio del secolo. Oggi è percorsa nei due sensi da interminabili file di autocarri che, in salita bruciano le frizioni, ed in discesa bruciano i freni.

Il risultato è che spesso i camion si fermano per guasti e talvolta qualcuno cade nel burrone (non ci sono ripari né guard-rail) Sciami di meccanici in moto percorrono la collina ed eseguono sul posto le riparazioni. Il traffico si paralizza, ma è talmente lento che quasi non ci se ne accorge.

A nord di Kara siamo andati a vedere la popolazione Tambermà, che costruisce case di terracotta molto particolari, dichiarate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO: questa è una popolazione ancora molto primitiva, che tuttavia si è dotata di abitazioni a due piani dall’architettura singolare. Dall’esterno assomigliano a piccoli castelli con i granai che simulano torri coperte. Dentro si sviluppano a chiocciola, con il focolare e gli animali in basso e l’abitazione ed i granai in alto. L’insieme offre ottime possibilità di difesa contro gli intrusi! Queste case ,costruite con fango, che poi viene cotto accendendo dei falò al loro interno ed impermeabilizzato con pozioni naturali, offrono un buon isolamento dal caldo, un riparo per la notte fresco e sicuro e a prova di acquazzone, al bisogno!

Le case-fortezza sono riunite in agglomerati parentali.  L’insieme fa pensare ad un paesaggio medioevale, ma non hanno nulla in comune con le costruzioni del nostro medio evo: sono il frutto di un adattamento alle condizioni climatiche locali ed ai materiali disponibili.

– Beh, mi sembra che in quanto ad arretratezza non sia cambiato molto da quando eravamo in Benin..-

–  Però negli africani, almeno in quelli colti, compare una consapevolezza della propria identità ed una insofferenza a dipendere da aiuti o politiche dei Paesi occidentali, che prima non si notava. Sono molto orgogliosi e tendono a non accettare consigli. Poi, magari non riescono ad organizzarsi né a distribuire la ricchezza e cadono in mani peggiori: ad esempio in mano ai paesi orientali…

Mmm ,buoni gli strozzapreti! Ma come li fai?-

-segreto dello chef. Poi, se sarai convincente , te lo dirò. Ma prosegui, dicevi che non è tutto uguale. Che ci sono nazioni in evoluzione, che stanno cambiando molte cose..-

– beh, già lo Zambia è diverso…-

– racconta, sei stati laggiù questo anno, vero?-

– si, ad aprile. 

Lusaka si presenta come una città moderna, con strade ben tenute e abbastanza pulite, con palazzi moderni e anche centri commerciali all’europea, forniti di tutto quanto un occidentale può volere. La luce elettrica è diffusa ovunque: insomma lo Zambia ha un aspetto molto” british” e poco africano. Vedi? Un abisso rispetto al Togo! Però…-

-Però?-

– Sister  Theresa ci accompagna a prendere schede telefoniche e Vittorio viene borseggiato in tempo reale del suo IPhone: meglio che a Napoli e un po’ meno british!!  Sr Theresa rimane mortificata, come se fosse colpa sua!

Le suore ci accolgono con calore in un loro centro studi ed il giorno dopo andiamo al nord, verso Luanshya.

L’aspetto del territorio conferma la prima impressione: strade ben tenute, coltivazioni, casupole con luce elettrica: sembra la padania di qualche anno fa! Solo che qui i padani sono neri. Anche il clima continua ad essere più simile a quello italiano che a quello cui siamo abituati in Africa, ma siamo su un altipiano e nel loro autunno.

Finalmente arriviamo ad Ibenga, dove si trova la missione ed il St. Theresa Hospital: ci accoglie una chiesa in stile gotico toscano dai tragici colori pastello, ed un ospedale a bassi padiglioni con veranda, tipico di queste zone.

L’ospedale è organizzato all’inglese, con infermiere in divisa ben curata, due colleghi eleganti e meeting organizzativi al mattino. –

– Allora qui stanno meglio? Sembrano più evoluti…-

-Tuttavia…Facendo il giro dei pazienti, mi accorgo che sia i clinical officers che i Colleghi medici, lavorano a schemi  mentali rigidi ed etichette fisse:

tosse?=TBC! dispnea?= insufficienza cardiaca ! ecc.  non visitano il paziente!

Logico aspettarselo  dai primi, meno accettabile dai secondi…  Anche le terapie sono standardizzate, ma nessuno controlla la esattezza della diagnosi!

Cerchiamo di adeguarci ai loro standard, confutando però, in maniera gentile,  alcune diagnosi molto superficiali.

L’atmosfera si ispessisce un po’: non c’è molto fair play da parte dei colleghi… Inoltre mi accorgo che dietro la facciata di efficienza inglese c’è  ben poco: mancano alcuni strumenti fondamentali, come ECG, RX, molto laboratorio.

Anche la gestione delle emergenze è inefficiente e cominciano a vedersi alcuni risultati negativi.

-Non capisco: a tuo dire sembrava un paese in evoluzione. Poi dici che mancano cose indispensabili! Ma com’è , realmente?… Prendi ancora della lingua! Non mi deluderai, spero?-

– mi prendi per la gola! Sai che non riesco a resistere! Tutto questo mi costerà una lunga corsa e moltissime vasche !!-

– dai, che non fa male fare un po’ di moto! Ma allora come sono?-

– E’ un  posto strano. Inaspettatamente, visto che il Paese si presenta moderno, c’è anche molta malnutrizione, che è particolarmente evidente nei bambini. Questo influisce pesantemente sul decorso delle malattie comuni, quali malaria, patologie respiratorie e infettive.  Lo staff non sembra stupirsene molto: mi spiegano che gran parte del paese è in mano a multinazionali che si dedicano a monoculture a scopo industriale, lasciando la popolazione nell’indigenza.

Purtroppo , a causa di malattie curabili, ma aggravate dalla malnutrizione e dal ritardo con cui arrivano in ospedale perdiamo un discreto numero di bambini….-

– questo sì, che è triste! … non riesco ad accettare la morte dei bimbi! –

– Anche noi! Cerchiamo di discuterne ad un meeting con il personale, ma una difesa d’ufficio blocca la discussione sul nascere.  

Fortunatamente, dopo i primi giorni, iniziamo ad operare facendo interventi che loro non avevano mai visto e, grazie anche  ai  buoni risultati,  riusciamo a farci apprezzare da tutti.

Pian piano riusciamo a fare entrare un po’ di spirito critico nei colleghi e li facciamo avvicinare all’ecografia e al controllo dei dati di laboratorio. Ida fa una presentazione sull’HPV (papilloma virus) e su cancro della cervice che convince tutto il personale. Anzi tutte le donne chiedono di fare il pap-test!!

Ci chiedono di continuare a collaborare con loro e di tornare ad operare. Noi cercheremo di tornare, ma soprattutto proveremo ad inviare alcuni degli strumenti mancanti e ad  organizzare dei corsi per insegnare come usarli.

Parallelamente alla attività clinica, discutiamo con le suore francescane, di vari livelli gerarchici, di un nostro progetto per ridurre la mortalità materno infantile e la malnutrizione. Loro si stanno battendo da anni contro queste piaghe ed hanno organizzato centri nutrizionali autonomi oppure collaborano a quelli governativi.

Suor Ilaria, ottantenne italiana veterocolonialista (quando è arrivata qui lo stato si chiamava Rhodesia del nord e c’era un governatore inglese!) ha messo su una scuola per handicappati e  lo Yola-Yoli project con  coltivazioni di mais, arachidi e girasoli, allevamenti di mucche ,maiali e polli con cui producono alimenti altamente energetici per integrare la dieta dei malnutriti. (>3000 pasti/mese)

Tuttavia vediamo anche centri, come quello di suor Letizia, in cui la dispensa è desolatamente vuota, fatta eccezione per due sacchi di mais e un pugno di pesciolini secchi!! Servono urgentemente miracoli moltiplicativi oppure finanziamenti !!!  Optiamo per i secondi e diamo un po’ di ossigeno a suor Letizia, che da sola, lontano da tutti, si occupa anche del lebbrosario. I pazienti ricoverati, con gli esiti  della malattia ormai curata, ci salutano con deferenza, toccando il cappello con i moncherini…mi viene un groppo in gola….-

– anche a me! Ti aiuteremo nelle vostre iniziative benefiche! …e poi?-

–  Siamo andiamo al nord, vicino al confine col Congo, a incontrare sr Beatrice, che ci mostra il centro di salute statale dove lavora: bello, pulito, organizzato. Fanno circa cento parti al mese, senza medico! –

– Allora qui le cose vanno meglio!-

– beh, quasi. Ci fa vedere le miniere e gli slums dove vive gran parte della gente e dei minatori. Durante il colonialismo questi avevano in comodato le case e molti benefit. Con la nazionalizzazione hanno sfrattato i minatori, venduto le case e mandato in rovina le miniere. Adesso hanno ceduto gli impianti a cinesi e paesi emergenti, che sfruttano senza pietà sottosuolo, popolazione e ambiente, avvelenando fiumi ed aria.

Insomma la situazione non è come appare a prima vista : le strade asfaltate e l’elettricità servono essenzialmente alle miniere, ed alle coltivazioni estensive di tipo industriale. La popolazione, a parte un embrione di classe media, vive come nel resto dell’Africa, nell’indigenza e nell’ignoranza. Chissà come riusciranno ad uscire da questa situazione? Forse con l’istruzione: non a caso su un muro c’era scritto: “Education is the only trip out of poverty”

Ci siamo sentiti un po’ inutili, con il nostro breve e piccolo aiuto sanitario…-

– Per carità, mi sembra facciate tanto…altrimenti perché ci torneresti?

-perché non posso farne a meno!

Si parte per spirito di avventura e animati dalla voglia di essere utili al prossimo e scopri che loro ti danno senso alla vita. E poi l’uomo è nato qui in Africa e senti di far parte di questa terra..-

– non esagerare. Sei nato qui e qui torni!…E poi non vorrai lasciarci da sole per lungo tempo? Abbiamo bisogno di voi anche qui..-

– Mi sembra che siate in ottima forma!-

– ….ad una certa età!….Ma… cosa ti ricordi di bello di questo viaggio?-

– Alla fine del soggiorno ci siamo concessi una gita per vedere le cascate Vittoria.  Dopo i saluti di rito, partiamo per  Livingstone, passando per Lusaka a prendere con noi suor Ornella, una italiana di Livorno, che lavora come  pediatra all’ospedale generale da quasi due anni e che non aveva ancora visto le cascate…  

Queste superano ogni immaginazione! Il fiume era in piena e una nube di acqua vaporizzata saliva a due-trecento metri di altezza  avvolgendo ogni cosa, dando vita a numerosi incredibili arcobaleni! Un sottofondo di tuono accompagna il timoroso visitatore. Anche la vegetazione attorno alla cascata è differente dal resto del paese: ha le caratteristiche della foresta pluviale tropicale che ti incombe e ti mette in soggezione.  

Qui l’Africa ti ricorda che terra immensa e ancora dominata dalla Natura che è ancora!

Con questo saluto indimenticabile e con l’immagine del coccodrillo che scodinzola controcorrente nello Zambesi , abbiamo lasciato lo Zambia…

Ma adesso si sta facendo tardi! Non vorrei stancarvi, sarà meglio che vada…-

Il cugino, sarcastico: – Loro sono formidabili e sveglissime! Confessa che sei tu, che crolli di sonno! … Dai, ti accompagno!-